Il presepe nel buio

Posted in Uncategorized on 8 dicembre 2012 by Dave *****

Fare il presepe è sempre stata una tradizione di famiglia, niente di speciale s’intende, ma da piccolo il poter ricreare questo sacro scorcio di vita mi affascinava molto. Dopo molte giornate dedicate a vani e amari tentativi di comprendere la filosofia sono finalmente uscito dal mio studio e ho notato che il presepe era già stato fatto, la scena già composta. Quando si reitera un’azione si tende a credere che la conseguenza di quell’azione non possa esistere senza noi, e così fui pervaso da un velato senso di tristezza; poi però sorrisi, sapevo che si trattava solo della mia vanità. Osservai di sfuggita ma più volte quelle sagome fredde e mal dipinte, come se non riuscissi a scrutarle con la giusta attenzione, come se immerse in quel piccolo contesto avessero perso tutta la loro grandezza. Solo dopo, notai che il presepe era stato posto in un luogo diverso dal solito, non più sul mobilio di ciliegio, ma su un armadietto nero, completamente nero. Le luci sfavillanti e intermittenti che esplodevano sul tetto e serpeggiavano nel muschio venivano divorate da quell’oscurità, dopo essere esplose con impertinente brio. Un palco scenico, nella quale ognuno recitava la sua parte, e l’attore più attesto, quello per cui si paga il biglietto e ci si avventura a teatro nonostante l’incessante neve penetri nelle membra, non aveva ancora fatto la sua comparsa. In quell’oscurità quella capanna, quella grotta, quelle assi di legno illuminate da pochi riflettori, sono un teatro nel teatro, gli attori sono tutti gli uomini  e un uomo solo, luci, oscurità e verbo. Dalle quinte, non illuminate, spunta il volto opaco di un pastore, le pecore e gli agnelli come congelati,  figli inquieti di quel teatro senza inizio e senza fine. L’oscurità però penetra anche in quella capanna che sembra tanto ben illuminata, negli occhi spenti di un falegname e nella paura di una donna in fuga, forse da se stessa. Mi accorsi che nonostante grandi suggestioni si formavano nella mia mente, non ero ancora riuscito nell’intento di osservare con attenzione quella scena, come se tutto fosse d’un tratto effimero, caduco, irrimediabilmente mutevole nell’eternità di un attimo. Così tornai ai miei studi di filosofia, non sapendo dire se fossi deluso o contento. Non tornai più a quella visione, non seppi se gli attori riuscirono a diradare quelle tenebre o se l’attore più atteso fosse già arrivato, ma continuai a pensare a quelle tenebre, a chi le guarda dal palco e a chi dalla platea, al pastore in attesa, ai magi occultanti i loro doni dietro il sipario, alla cometa dispersa in chissà quale cielo.

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Ode alla putrefazione

Posted in Uncategorized on 26 novembre 2012 by Dave *****

Dedico codesti versi  infami a

te, oh dolce putrefazione,

a te e alla amar tua sudditanza,

che piega Venere in lagrime di sangue.

I tuoi adepti più fedeli non manchino

‘l fatal appuntamento, pena, la vita!

Color che brindano a virtute e grazia

com a lor più acerrime nemiche,

voi demoniaci aborti dipinti da un

pittore cieco,  le rosee guance e i

sanguinosi occhi, voi lugubri

verre rivestite di profanatrici spoglie,

voi orrori senza poesia, bellezza o cuore,

voi costati vuoti profumati di volgarità,

voi esseri rigettati dalla natura, alla ricerca

di un piacere vuoto, che la vita vi diede

com condanna alla di voi condotta.

Voi che sguazzate nel fango della vostra

anima logora e sporca, il vostro sorriso

è grasso e unto come la vostra favella.

Oh unica dea putrefazione, che tra tutti

gli immortali unica di questi ti degni,

abbraccia le loro ossa e logora i loro visi,

uccidi la lor volgarità intrisa di sporcizia

e poggia specchi immensi ovunque

essi si movano.

Mostra loro l’infame condizione e

quando mistificandosi col fango

le lacrime puliranno la loro anima

dalla cecità,

vibra la mannaia e colpisci forte,

e stendi un velo scuro sulle carcasse

di quest’uman macello.

Vanitas – Otto Dix

A silvia – rivisitazione

Posted in Uncategorized on 25 novembre 2012 by Dave *****

Silvia, ancor a te sovven

quel dì in le tue carnal spoglie,

rifulgean di Venere le luci

nel guardo tuo giocondo e schivo,

e tu, mutevole e brillante,

travalicavi inconscia primavera?

Rifulgean d’armonico echeggiar

le cose e le contade al tuo

melodico discorrer,

allor che nei panni di Penelope

tessevi, di vita ‘l gaia trama

e incerta tanto. Era il Maggio

di color vestito: e tu solei

così giocar col tempo.

I’ le carte scure talor

lasciando e l’opre antiche,

ove ‘l tempo mio primo

e di me si spendea la miglior parte,

dall’alti tanto balcon freddi

gaio fu l’udito mio al di te canto,

ed alla ratta man, in me

tessendo trame antiche e sentimenti.

Mirava ‘l pacato e azzurro alto,

l’imperlate vie di luce e l’orti

e quinci Nettuno e li titan da lungi.

L’uman favella non sa

di tutto ciò estrinsecar la forza.

Che pensier soave,

qual speme, qual beltà, o Silvia mia!

Com allor mirammo,

la mascherata attrice e ‘l fato!

Quando li sentimenti assaltan il cor mio

un etterno affetto mi scolpisce.

Ratto e struggente,

e mi sovvien l’alta sventura.

O natura, natura,

perché non cedi ciò per cui

aguzzi l’uman voglie? Perché tradisci

la tua bassa sudditanza?

Tu pria che ‘l faggio colorisse

le sue spade, d’oscur dolor affetta

tosta perduta fosti tra le braccia

della mietitrice. E più non

sbocciaron gemme nella landa del tuo cuore.

Più non ti tangean le dolci lusinghe

per il fluente capo o per il viso schivo,

né più con te all’amore feste

raccontavan l’amiche le di Cupido intese.

Si dipartìa frattanto

la speranza mia perduta: ‘l fato negò

me com te la primavera dolce.

Ahi come, come fuggisti tosta,

cara illusion del tempo mio passato,

mia agognata ed effimera speranza!

Questo è quel regno, le cose, i

canti, le rime di cui ragionammo

in sublim connubio?

Questo il baratro dell’uman fera?

All’apparir del vero tu,

già infelice, cedesti: e con

gelido bacio e oscur mantello

scostando, apristi ‘l guardo all’amar

mortal destino, e lontan

apparìa una tomba di gelo infusa.

Il tempo

Posted in Uncategorized on 21 novembre 2012 by Dave *****

Com’in procella ‘l fronde d’un arbusto estivo,

tutte in danza calorosa e bella

ad Eolo son prostrate esauste

così il mio amore arde sotto il gioco

d’ustionanti luci e odor di pesco,

e frutti da gusti transumani son colti da questo.

Ma ecco che la brezza soffia

sulle bianche spalle d’un Carpine giocoso,

e foglie e germogli d’un verde cristallo tinti

giocosi s’aggrappan dolci al cor del padre loro,

e stan così in melodica armonia

come le note del fior del pruno in aere sparse.

E’ poi ‘l tempo dei faggi lievi di vecchiezza che

egoisti e un po’ maldestri ruban il color a li vicini arbusti,

le lor braccia stanche stringon l’ultime gemme pigre

e qualche baluarda spada verde sbeffeggia le bronzee compagne.

E se ‘l guardo d’un passante s’accosterà ai piedi d’un di questi

potrà mirar li riflessi ultimi d’oro brillanti dell’estivo sol che fu.

Ma le foglie stanche pennacchi di cavalieri reduci di guerra

in massivo silenzio si raggomitolano al suolo,

‘l sangue di lor linfa riempi i cuori delle volgar viole

di carmineo stupor e meraviglia, e in contemplazion

l’ultimi fior e spade ed ossequioso silenzio a mirare stanno

l’ultima danza dei figli del sole, ch’in fuochi attenuarsi declinano.

I prithee thee

Posted in Uncategorized on 8 novembre 2012 by Dave *****

Thou that felt in love with miss Fanny,

I prithee to let me sing this symphony,

Thou who wanderst in sadness blissfully

don’t perpend this elegy a litany.

Thou who o’er poets bistiren thy voice willfully,

Alas! Thy life was riven abismally,

Dear Immortal Voice, I beseech thou timidly,

abet me being more a king, and less an Antigone.

Classici e libri sopravvalutati

Posted in Uncategorized on 2 novembre 2012 by Dave *****

Vorrei aprire una discussione su come i classici non debbano solo essere considerati tali, ma rimanerlo. Quante volte a scuola ci sono stati affibbiati da leggere libri etichettati come “classici”, che tuttavia non toccano minimamente la nostra anima? Così anacronistici da non sembrarci nemmeno libri, ma un’insieme sconclusionato di parole? Se la risposta è “diverse volte”, vi invito a proseguire con la lettura di questo articolo.

E’ importante e assolutamente necessario distinguere tra due categorie di classici, anzi, tre.

1) I CLASSICI “TEMPORALMENTE”: Bene questi sono la categoria peggiore, poiché si sono meritati il titolo di “classici” un po’ per fortuna, un po’ perché sono stati scritti nel paleolitico. Attenzione, non sto dicendo che un libro scritto nel passato sia un pessimo libro (successivamente infatti citerò volentieri libri del passato più remoto), ma sto dicendo che, soprattutto in ambito scolastico, si tende a consigliare la lettura di opere che non solo non hanno niente a che fare con noi, ma che molte volte sono anche noiosi e pesanti. Si potrebbe dire: “è un tuo parere, un libro che magari per te è pesante, non lo è per un’altra persona”, possibile, ma scavate nel vostro profondo, e se avete letto diversi “classici”, ne troverete almeno qualcuno appartenente a questo genere.

2) I CLASSICI SOPRAVVALUTATI: Se nella categoria precedente la colpa poteva ricadere anche in piccola parte sull’autore, vediamo come in questo caso la colpa sia della storia, o meglio della tradizione che tramanda testi che possono anche apparire ben costruiti, ma che sono decisamente sopravvalutati. Se cercate su google “overrated books”, potrete trovare tutti i libri che in generale si danno da leggere agli studenti, ma soprattutto: le sorelle Bronte e Jane Austen. Mi chiedo, se la Austen non fosse stata “l’unica” donna a scrivere al suo tempo e se non fossero stati fatti vari film sulle opere di queste signore, si meriterebbero davvero il titolo di “classici”? Molte volte si sente dire, riguardo a questo genere di libri: “per l’epoca in cui sono stati scritti……” Questo non fa di un libro un classico. Un classico è un’opera il cui contenuto è senza tempo, scritto e strutturato in una maniera perfetta o quasi.

3) I VERI CLASSICI: Quelle opere dal valore universale, la cui struttura rasenta la perfezione, opere per le quali nessuno può dire “l’avrei scritto meglio” o “questa parte non è un gran che”, dove la soggettività può riguardare solo la voglia o meno di leggerlo o l’opinione dell’autore riguardo qualche cosa. Libri come il Genji Monogatari, un’opera immensa che però si legge velocemente per la perfezione nel lessico e nella struttura, sono classici, non Moby Dick. Ah, l’autore del Genji Monogatari è una donna.
Mi chiedo se al giorno d’oggi i classici siano solo i “sempreverdi” del dogmatismo scolastico che pur di non ricercare altri testi che nemmeno i professori hanno letto propinano all’infinito gli stessi titoli consunti e quelle opere che hanno avuto un’importanza nella letteratura per qualche ragione, e da quel momento sono diventati classici abusati. Forse mi sbaglio, ma vi inviterei a ragionarci su 🙂

Una storia d’amore

Posted in Uncategorized on 26 ottobre 2012 by Dave *****

Quando si conobbero pioveva, e

d ei non potea volare, ed ella non vedere.

Quando si conobbero, Icaro e Diana,

fu turbinìo di fiori, caduchi ma in festa.

E ora che tanti baci sono caduti sui loro volti

quanti i fiori tardivi della Wisteria,

ella è l’Icaro e lui Diana.

Lui che la libera dal giogo dell’ustionante sole,

lei che alza il suo sguardo, spesso fisso sulla nuda terra.

L’amore è come la danza d’ebbre ninfe,

ch’un Bacco insaziabile si diverte a veder giocare.

 

Sulla Maldicenza

Posted in Uncategorized on 8 ottobre 2012 by Dave *****

V’è un luogo ch’è situato

sulla via di ciò ch’è pronunziato,

D’infamia è prole ‘l pargol sazio

d’amarezze e d’odio nel suo spazio,

errabondo e saltimbanco

è di danzar folle stanco,

allor s’appropincua in volo

rapace, carnefice solo.

E’ la dimora della maldicenza,

cui l’om par recarsi al più con impazienza,

castel dell’arroganza,

spelonca della tracotanza,

dalla quale fuggon neri cavalieri

armati di grami pensieri,

pronti ad assaltar un buon samaritano,

che morrà per man d’un cortigian villano.

Portrait of the Journalist Sylvia von Harden, 1926, mixed media on wood, 120 x 88 cm, Paris, Musée National d’Art Moderne

Elegy – Thomas Chatterton (translated)

Posted in Uncategorized on 15 Maggio 2012 by Dave *****

Joyless I seek the solitary scene,
Where dusky Contemplation veils the scene,
The dark retreat (of leafless branches made)
Where sick’ning sorrow wets the yellow’d green.

The darksome ruins of some sacred cell,

Where erst the sons of Superstition trod,
Tott’ring upon the mossy meadow, tell
We better know, but less adore, our God.

Now, as I mournful tread the gloomy cave,
Thro’ the wide window (once with myst’ries dight)
The distant forest, and the dark’ned wave
Of the swol’n Avon ravishes my sight.

But see, the thick’ning veil of evening drawn,
The azure changes to a sabled blue,
The rap’tring prospects fly the less’ning lawn,
And nature seems to mourn the dying view.

Self-frighted Fear creeps silent thro’ the gloom,
Starts at the rustling leaf, and rolls his eyes;
Aghast with horror, when he views the tomb,
With ev’ry torment of a Hell, he hies—

The bubbling brooks in plaintive murmurs roll,
The bird of Omen with incessant scream,
To melancholy thoughts awakes the soul,
And lulls the mind to Contemplation’s dream.

A dreary stillness brood o’er all the vale,
The clouded Moon emits a feeble glare;
Joyless I seek the darkling hill and dale,
Where’er I wander Sorrow still is there.

TRADUZIONE:

Infelice percorro un luogo solitario,

offuscato da fosca contemplazione.

L’oscurità fatta di spogli rami si ritira

là dove la nauseabonda pena tinge di giallo il verde.

Le tenebrose rovine di qualche cella sacra,

dove si aggiravano un tempo i figli della Superstizione,

calpestando fragilmente il terreno muscoso, dicendo

Meglio conosciamo, ma meno adoriamo, il nostro Dio.

Adesso, così io mi trascino afflitto per una tenebrosa grotta,

Attraverso l’ampia entrata (un tempo adorna di misteri)

la distante foresta, e l’onda oscura

del gonfio Avon rapiscono il mio sguardo.

Ma guarda, lo spesso velo della sera è ormai dipinto,

L’azzurro muta in blu offuscato,

Le estatiche prospettive planano al suolo,

e la natura par compianga la caduca visione.

Paura timorosa di se stessa striscia silenziosa nell’oscurità,

Al fruscio delle foglie volge lo sguardo;

Stupefà con orrore, quando vede una tomba,

con ogni tormento dell’Inferno, si affretta.

Schiumosi ruscelli scivolano con lamentosi mormorii,

Il corvo col suo incessante grido

desta nell’anima malinconici pensieri,

e culla la mente in un sogno contemplativo.

Una triste quiete torreggia tutta la valle,

la Luna offuscata emette un debole bagliore,

infelice percorro oscure colline e valli,

ovunque io vada errando, il dolore sarà là.

 

Bee Movie e il Labor

Posted in Uncategorized on 22 aprile 2012 by Dave *****

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Oggi mi sono ritrovato a guardare il film “Bee Movie”, uscito qualche anno fa, che poi avevo anche già visto. Tuttavia, fissando lo schermo svogliatamente, mi è saltato in mente uno strano paragone, che vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Ho visto nel film il motto del poeta latino Virgilio: “Labor omnia vicit“. E infatti le api, vivendo una vita operosa, una volta aver vinto la causa contro gli umani sul possesso del miele, prendono a non lavorare più, beandosi nell’immensa quantità di miele a loro disposizione, senza più lavorare per produrlo. Tuttavia si sente aria di malinconia tra le api, ed è così che prima che tutti i fiori appassiscano, il protagonista del film mette in atto un ingegnoso piano per poterli re-impollinare e ridare operosità e senso alla vita delle api ormai infiacchite. Accade qualcosa di analogo nella prima georgica di Virgilio, dove Giove sottrae all’uomo le delizie prodotte dalla natura nell’età dell’oro con uno scopo ben preciso: quello di evitare la sua inoperosità e far sì che si ingegni. Così le api del film comprendono che senza labor non potrebbero vivere e tornano a produrre miele. Interessante, no?